Se dopo aver mangiato una Margherita ci si sente gonfi e la digestione è difficile la “colpa”, nella stragrande maggioranza dei casi, non è dello stomaco ma della pizza. Se il procedimento, dalla lievitazione alla cottura, è corretto e gli ingredienti di buona qualità la Margherita non diventa un peso.

Lo assicura Pino Arletto, maestro pizzaiolo da oltre trent’anni, che commenta i risultati di un’indagine (Doxa-Assobirra) sugli abbinamenti in pizzeria e sui falsi miti e i pregiudizi che esistono intorno a questa solida accoppiata culinaria.

«Bisogna, prima di tutto, assicurarsi della qualità della pizza – consiglia Arletto – Bisogna ricordarsi di cinque regole. In primo luogo la lievitazione deve essere lunga almeno 24 ore, così otterremo una preparazione buona e digeribile. Poi, quando facciamo una pizza a casa o la ordiniamo, dobbiamo accertarci, se è possibile, che la farina abbia un indice di qualità medio alto, w280, un ricco contenuto proteico che dà all’impasto più elasticità. Il condimento deve essere con con ingredienti non troppo umidi, altrimenti avremo una Margherita o una Marinara troppo acquose. Fondamentale la spianatura in punta di dita del pizzaiolo che assicura fragranza e croccantezza. E, infine, la cottura che deve durare fino all’imbrunimento. Se troppo lunga si rischia una pizza secca».

Poche indicazioni: no al lievito di birra e sì al lievito madre; no allo strutto e sì all’olio extra-vergine; sì alla vera mozzarella e no al formaggio a pasta filata. Sempre farina di grano tenero 00.